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lunedì 15 dicembre 2014

David Foster Wallace (1962-2008)











In un'intervista rilasciata nel 1996, dopo la pubblicazione del suo capolavoro-monstrum Infinite Jest,  DFW riconobbe (quasi un'excusatio non petita, suggerita dalla propria congenita insicurezza) che “se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non farai mai nulla”.

Eppure, eppure, questa è proprio una storia di eccessiva fedeltà al perfezionismo. Balziamo avanti nel 2007: David ha ormai alle spalle una sfilza di pubblicazioni osannate da pubblico e critica, tra le mani un nuovo romanzo che promette bene, un matrimonio felice, due cani che adora, una specie di sinecura al Pomona College, richieste di collaborazione dai più grandi magazine della nazione, nessun grave episodio depressivo  ad annebbiargli la mente da diversi anni. Una vita invidiabile, quasi perfetta. Quasi: perché basare la tua salute sull'ultraventennale dipendenza da un farmaco inibitore della monoaminossidasi, una roba piena di controindicazioni ed effetti collaterali uscita dal paleolitico olduvaiano della farmacopea, una roba che non sai se possa essere alla radice di quei giorni in cui non riesci a scrivere nulla di decente, ecco, secondo David questa non poteva essere una vita perfetta.

E allora si lascia tentare: in seguito ad un attacco di ansia (da lui ritenuta invece l'effetto dell'interazione tra  il pasto appena consumato e la fenelzina che gli scorre nel sangue) che lo porta a farsi visitare da un medico, ascolta esattamente quello che vuole sentirsi dire dagli sciamani della neurochimica: "ci sono un sacco di antidepressivi superiori sul mercato, ora come ora", nonostante il precedente tentativo di mollare il Nardil l'avesse portato a un soffio dalla morte per suicidio costringendo i medici a sottoporlo a una terapia elettroconvulsivante. Quella volta David sembrò aver imparato la lezione (d'altronde era un tipo intelligente); scrisse alla sua amica e agente letterario Bonnie Nadell: "better an alive janitor than a dead whatever" (che potremmo rendere col detto "meglio un asino vivo che un dottore morto"). Ma quando stai bene per "troppo" tempo, tendi a confondere una terapia efficace con l'effettiva guarigione, e David ci casca di nuovo, con l'aggravante che questa volta non è un ragazzino di 23 anni, ma un uomo di 45, con ampia esperienza di disturbi psichici, abuso di sostanze e risalita dagli inferi.

La prima settimana d'astinenza sembra procedere bene poi, nei mesi successivi, arrivano nausea, spossatezza e tutto il resto. Entro la fine dell'anno perde quasi 15 chili e deve essere ricoverato. I medici gli prescrivono nuovi antidepressivi, ma questi non funzionano. Ne provano altri e altri, riprovano ancora col Nardil che sembra però aver perso la sua efficacia. Succede così, quando pasticci con la chimica. Infine, dopo l'ennesimo tentato suicidio, non resta che tentare coll'elettroshock: dodici estenuanti sedute, tra giugno e luglio del 2008.

Invano.
David programma l'appuntamento con la morte per la sera del 12 settembre, un venerdì. Nei giorni immediatamente precedenti interpreta una sceneggiatura scadente intitolata "ehi, non va tanto male", giusto per depistare un po' la moglie. Quella sera suggerisce a Karen di andarsene un paio d'ore al "Beautiful Crap", la galleria d'arte al Packing House dove lei lavorava e avrebbe dovuto inaugurare una mostra. Karen, per nulla impressionata dal teatrino del marito, è però intimamente rassicurata dal fatto che David lunedì era andato a farsi vedere da un chiropratico. "Non vai da un chiropratico, se hai intenzione di ammazzarti" pensa. Così osa  lasciarlo solo in casa.

Appena la moglie se ne va, David entra in garage (che lì a Claremont ha sempre usato come studio), accende le luci, scrive una nota di commiato lunga due pagine, lavora un po' al manoscritto inedito lasciando il malloppone in evidenza vicino ai pc, dà un bacio ai suoi amati meticci, Werner e Bella, gira attorno alla casa raggiungendo il patio e qui, dopo essersi legato le mani con del nastro adesivo per evitare che l'istinto di sopravvivenza mandi a monte l'operazione, salta sulla sedia a sdraio e si impicca usando la propria cintura nera dei pantaloni, preventivamente inchiodata ad una trave di legno.
Karen lo trova così al suo rientro, alle 21.30.


domenica 7 dicembre 2014

Sylvia Plath (1932-1963)


Verso le 5:00 a.m. dell'11 febbraio 1963 - un triste lunedì - Sylvia Plath entra nella stanza dei propri figli (Frieda, 3 anni; Nicholas, nemmeno 13 mesi), posa sul comodino accanto ai loro letti un piatto con alcune fette di pane imburrato e due tazze di latte, apre la finestra che dà sul retro di Fitzroy Road, lasciando entrare il gelo di quell'inverno londinese particolarmente rigido (il peggiore degli ultimi 100 anni, dicono), richiude la porta alle proprie spalle e, dopo averne sigillato le fessure con nastro adesivo su stipiti e architrave e asciugamani bagnati sul pavimento, scende in cucina. Qui, ripete l'operazione di coprire ogni spiraglio ai serramenti, ingolla una manciata di sonniferi, apre i rubinetti del gas e lo sportello del forno nuovo (appena acquistato grazie ai risparmi di zia Dot arrivati dall'America), infilandoci la testa il più internamente possibile, con la guancia sinistra posata su un tovagliolo ripiegato, attendendo che il monossido di carbonio la porti lentamente all'asfissia (sfortunatamente, all'epoca, la riconversione dal coal gas all'innocuo metano in UK non era stata ancora portata a termine).

La foto qui sopra non è per nulla accurata: il pavimento della cucina, in realtà, era fatto di legno e così, dopo aver saturato la stanza, il gas venefico passa attraverso le assi raggiungendo il piano di sotto, dove dorme, nel proprio letto, Trevor Thomas. Accade perciò che quando Myra Norris, la nuova au par chiamata in sostituzione della precedente (cacciata da Sylvia perché, pare, beccata a letto con un uomo), arriva puntualmente alle 9:00 a.m. per prendere servizio e trova il cancelletto chiuso e nessun campanello col nome che l'agenzia le aveva fornito (Sylvia Plath Hughes) e allora prova a suonare a quello di Trevor Thomas, Trevor è privo di sensi, a causa del monossido di carbonio penetrato dal soffitto fin dentro ai suoi polmoni, e quindi non può né rispondere né tantomeno aprire. Myra verifica nuovamente l'indirizzo ("Fitzroy Road 23: è proprio questo!"), quindi gira attorno al caseggiato in cerca di una entrata secondaria; giunta sul retro scorge due bambini in lacrime affacciati alla finestra. Chiaramente preoccupata da quanto ha visto, Myra si affretta di nuovo verso l'ingresso principale, dove incrocia Charles Langridge, un operaio che stava lavorando alle tubature danneggiate per il ghiaccio in una proprietà vicina, che la fa entrare nello stabile.

I due trovano Sylvia riversa a terra in cucina, priva di vita, 28 giorni dopo la pubblicazione del suo unico romanzo, due mesi dopo il trasferimento a Londra, sei dalla separazione con Ted Hughes (che nel frattempo se la faceva con Assia Wevill, pure lei amante dei forni a gas), dieci anni dopo il primo tentato suicidio.

Lascia all'ex marito un'enorme eredità letteraria e al figlio maschio i geni del suicidio.